DI PESCI A TAVOLA E DI ALTRE STORIE

Per la rubrica Intorno al Focone proviamo oggi a curiosare nella vita di un pescatore di qualche anno fa, diciamo un pescatore della metà del secolo scorso, per scorgerne e indagarne alcuni aspetti della sua quotidianità legati alle sue abitudini alimentari.

Eh già… un pescatore e la sua famiglia, mangiavano e mangiano, al pari di qualunque altro essere umano.

Ma, quali erano le loro abitudini alimentari?

Proviamo ad avere una prima panoramica sull’argomento, riproponendo alcuni estratti del Protocollo della tradizione della filiera del pesce azzurro (pisce currente) nei borghi marinari di Castro, Porto di Tricase, S. M. di Leuca e Valona (Albania), una bellissima e interessantissima ricerca realizzata dall’Associazione Magna Grecia Mare, nel 2010, nell’ambito del progetto regionale “Le coste dell’Azzurro”, finalizzato a tutelare e valorizzare le tradizioni marinaresche (tecniche di pesca, conservazione e trasformazione dei prodotti, recupero di pratiche, usi e costumi) dei piccoli borghi marinari di Puglia e Albania. Una ricerca documentata tramite interviste, filmati e registrazioni (a disposizione di tutti presso la Bibliomediateca del Mare del Porto Museo di Tricase) che ha coinvolto, nei borghi marinari scelti, anziani uomini e donne “de mare”, molti dei quali, purtroppo, non sono più tra noi.

Ci ripromettiamo di ritornare, in future pubblicazioni, sugli argomenti più salienti e interessanti con ulteriori approfondimenti, dettagli e curiosità.

Torniamo quindi al nostro pescatore e alle sue abitudini alimentari. Senza ombra di dubbio, l’alimento principale della sua dieta era rappresentato dal pesce.

Ve lo immaginate il ragazzino di 50 anni fa, che chiede “mamma, cosa mangiamo oggi?” e che, tutti i giorni, si sente rispondere “oggi papà ha portato a casa … pesce”.

Bene, in realtà, non erano quelli i tempi in cui si facevano quel genere di domande e, sicuramente, un bambino ben educato avrà comunque gioito per la risposta della madre … o almeno avrà finto di gioire! Siamo sicuri che, per quel povero figliolo, questa risposta era come una spina in gola, prima ancora di mangiare il pesce! 😊

“Il pesce, per ovvie ragioni, rappresentava l’alimento principe della dieta dei pescatori.

Il pesce utilizzato nella cucina era però solo quello invenduto, cioè:

  • la parte della “mancia”, ovvero la citata “rancata” di pesce suddiviso tra i membri dell’equipaggio;
  • gli esemplari rotti o rovinati, i quali, sebbene esteticamente meno attraenti, dal punto di vista del sapore, avevano un “qualcosa in più”. Calando le reti di sera e tirandole al mattino successivo, infatti, i pesci rovinati (parzialmente morsi da predatori come murene e dentici) avevano il tempo di insaporirsi con l’acqua salata, risultando decisamente più gustosi.

Ora qualcuno di voi, pur conoscendo esattamente il significato della parola rancata (manciata), potrebbe chiedersi cos’era o meglio come funzionava?

Per chiarire, dovremmo alzarci dalla tavola del pescatore e scendere sulla banchina del porto, proprio mentre la barca e il suo equipaggio stanno facendo ritorno.

A quei tempi, come ancora oggi, il pescato veniva consegnato al pescivendolo (iatacaru) direttamente sulla banchina del porto, riconoscendo all’equipaggio la mancia, consistente in un piccolo quantitativo di pesce (una rancata appunto) destinato al consumo domestico. Il pescivendolo annotava su un apposito libretto, tenuto dal capobarca, i quantitativi di pesce che gli venivano consegnati per i quali, ogni 15 giorni o alla fine del mese, corrispondeva il relativo importo. Ricevuto il pagamento, il capobarca procedeva alla spartizione del ricavato tra tutti i componenti dell’equipaggio. Sulla spartizione delle somme ricevute dal pescivendolo, ci sarebbe tanto da dire, ma sono altre storie che vi racconteremo in un altro contesto.

Abbiamo detto poc’anzi di pesci rotti, presi a morsi da altri predatori e quindi non vendibili. Ovviamente, figuriamoci se ci si poteva permettere il lusso di sprecare le preziose risorse offerte dal mare, perciò il pescatore li metteva comunque nel suo panaru e li portava a casa, perché la moglie potesse trasformarli e metterli in tavola per la famiglia (ricordate: la triglia non la mangia chi la piglia!).

Quel “qualcosa in più” che i pescatori definivano sapore (perché le carni dei pesci, si erano insaporite al contatto con l’acqua salata), in realtà e con il senno di poi, tanto sapore non era. Il pesce infatti, non più protetto dalla pelle e morto prima degli altri, subiva un decadimento qualitativo molto più importante e rapido rispetto a quello degli esemplari rimasti intatti. Ma il nostro povero pescatore doveva pur “prendersi in giro da solo” per accettare la situazione e mandare giù quel boccone di pisce spisciatu, come era solito chiamare il pesce rovinato.

Torniamo a noi…

“La fantasia e l’esperienza della donna, dunque, determinava la varietà delle ricette. Avendo sempre il comune denominatore nell’ingrediente pesce. In brodetto, fritto, arrostito e in tutte le varianti, il pesce veniva consumato 7 giorni su 7”.

Rocco ci racconta che sua madre, in seguito ad una grossissima e fruttuosa battuta di pesca, diede ai suoi figli da mangiare pesce per almeno tre giorni, a colazione, pranzo e cena, non dormendo di notte per evitare che i figli, svegliandosi prima di lei e consapevoli che avrebbero rimangiato pesce al mattino, potessero sottrarsi al loro destino alimentare. Ricordate che non c’erano i frigoriferi!

 Quelle sante donne dovevano inventarsene una diversa ogni giorno e abbinare tutti gli ingredienti per poter metter in tavola qualcosa di veramente saporito ogni giorno.

In un territorio come quello in cui ci troviamo, che è terra e mare allo stesso tempo, non è difficile immaginare che…

“…tutti i pescatori avevano un pezzettino di terra da curare quando non andavano a mare, per assicurarsi ulteriori tipologie di provviste: verdure, legumi, la gallina e le sue uova rappresentavano una fonte di sostentamento e diversificazione dell’alimentazione.

Si otteneva, in pratica, quell’unicum alimentare che oggi va sotto il nome di “dieta mediterranea”.

I più fortunati, inoltre, potevano contare anche su qualche albero di olivo, dal quale ricavare il prezioso olio, anch’esso base imprescindibile della citata dieta”.

E finalmente arriva il giorno della festa…

“Nel giorno della festa, in pratica la domenica e le grandi festività, il pesce veniva preparato al sugo, utilizzato per condire la pasta fatta in casa, cioè orecchiette e maccheroni (ricche e maccarruni) e sagne. Per tale scopo erano preferiti i pesci di scoglio ma, dato il loro maggior pregio, la minore quantità pescata e conseguentemente la possibilità di venderlo più facilmente, si ricorreva sovente alla preparazione del sugo con il pesce azzurro.

 “Mai una gioia” direbbe oggi il povero ragazzino, figlio del pescatore!

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